È il più grande del mondo e viene gestito con criteri “etici”, ma con il calo del prezzo del petrolio le cose potrebbero cambiare…

Il fondo sovrano norvegese è unico al mondo. Non soltanto è il più grande che esista, con un patrimonio di 790 miliardi di euro, ma è anche quello gestito con più prudenza. La legge stabilisce che venga gestito in autonomia dal resto delle istituzioni del paese e vieta al governo di fare prelievi dal capitale, concedendo l’utilizzo solo dei rendimenti prodotti dagli investimenti. Inoltre, il fondo è gestito con criteri ambientalisti e responsabili: i manager, ad esempio, hanno disinvestito nelle società che hanno a che fare con il tabacco e il carbone e non fanno affari con paesi o industrie con una reputazione dubbia.

Il fondo norvegese deve la sua fortuna essenzialmente all’estrazione del petrolio. All’inizio degli anni Sessanta vennero scoperti nel Mare del Nord diversi giacimenti di petrolio, e la Norvegia riuscì ad aggiudicarsi alcuni dei più ricchi. Altri giacimenti sono stati scoperti negli anni successivi e il governo norvegese ha mantenuto con diligenza l’obbiettivo iniziale di versare i proventi dell’estrazione in un fondo, e di usare per la spesa pubblica soltanto i proventi degli investimenti creando così una sorta di “assicurazione nazionale” che oggi vale due volte l’intera economia del paese.

Negli ultimi tempi, come ha raccontato un recente articolo dell’Economist, stanno però aumentando le pressioni affinché il fondo modifichi il suo comportamento, almeno per quanto riguarda la prudenza nella sua gestione. Gran parte della ricchezza della Norvegia e del suo fondo sovrano è dovuta alle ampie riserve di combustibili fossili. Ma con il calo del prezzo, il paese ha perso quasi metà dei guadagni che arrivavano dall’industria petrolifera. Il risultato è che il governo ha dovuto rinunciare ad alcuni programmi di spesa. Da tempo molti ritengono che la Norvegia debba cominciare a prepararsi al momento in cui la sua economia non potrà più dipendere quasi esclusivamente da gas e petrolio e il crollo del pezzo del petrolio è stata una sorta di campanello d’allarme in vista di questo scenario. Di conseguenza, qualcuno vorrebbe che il fondo venisse sfruttato maggiormente, per bilanciare i mancati introiti dal petrolio.

Senza i giganteschi guadagni dovuti al petrolio, la Norvegia dovrà fronteggiare il problema che nei prossimi decenni attende tutti i paesi scandinavi: quello di uno stato sociale generoso che non sarà facile mantenere, con una popolazione sempre più anziana. Attuare le riforme necessarie – cioè i tagli, sostanzialmente – per prepararsi a questo momento non è troppo costoso politicamente, se fatto per tempo. Ma, come ha raccontato all’Economist un funzionario vicino all’amministrazione del fondo: «È molto difficile stringere la cinghia quando ti trovi un gran bel gruzzoletto appoggiato sul comodino».

Tirare la cinghia”, per la Norvegia, è un concetto relativo. In quasi tutte le classifiche i norvegesi risultano tra i primi cinque popoli più ricchi del mondo e il paese è in testa anche a tutti gli indici di sviluppo umano (come quasi tutti i paesi scandinavi: i norvegesi si differenziano dagli altri principalmente perché sono ancora più ricchi). Eppure sono anni che gruppi politici, in genere minoritari, chiedono che vengano distribuiti maggiori utili del fondo. Il Partito del Progresso, una formazione populista e anti-immigrati, è probabilmente il principale sostenitore delle maggiori spese con i soldi del fondo. Da quando nel 2013 è entrato nella coalizione di governo, le richieste dei suoi leader si sono fatte meno numerose, ma qualcosa sembra che stia davvero iniziando a cambiare.

Complice il crollo del prezzo del petrolio quest’anno, per la prima volta nelle ventennale storia del fondo, il governo norvegese ha prelevato più soldi dal fondo di quanti ne ha versati grazie alle rendite del petrolio. A causa di una situazione sfavorevole sui mercati internazionali, anche il patrimonio del fondo è calato leggermente. Non sono segnali di allarme troppo preoccupanti: il fondo vale pur sempre più del doppio del PIL di tutta la nazione e non è certo prelevando qualche corona in più per alcuni mesi che le sue riserve saranno esaurite.

Per il futuro del fondo sembrano più interessanti le voci critiche che sempre più numerose accusano la sua gestione di essere troppo prudente. Dal 1998 ad oggi il fondo ha avuto un rendimento medio del 5,5 per cento annuo, troppo poco secondo molti. Alcuni accusano i suoi gestori di non aver investito a sufficienza nei paesi emergenti e di aver perso molte altre opportunità. Uno dei personaggi più critici del fondo è Sony Kapoor, che lavora come consulente per governi e banche centrali. Secondo una stima di Kapoor, la timidezza dei suoi manager è costata al fondo quasi 150 miliardi di euro